Questo primo giorno del triduo santo è caratterizzato da un clima familiare: Gesù e i suoi a cena. Familiare ma drammatico… per Gesù. Lui è infatti l’unico a percepire il dramma, che dunque porta da solo. I suoi non sono ancora fuggiti, ma comprendono poco o nulla di quanto sta accadendo. Lo dimostra Pietro, con le sue parole fuori luogo; e gli altri con il loro silenzio, ancora più sconcertante.
Possiamo prendere questa immagine a spiegazione del gesto della lavanda dei piedi: creare un piccolo cono di luce, che non dissiperà le tenebre, non impedirà a Gesù di morire, ma insinuerà in quella vicenda un germe invincibile e inarrestabile, di cui noi qui riuniti questa sera siamo ancora testimoni.
“Si alza” dice Giovanni: un gesto deciso, che indica la volontà di reagire, di non abdicare, di andare “fino in fondo”. E comincia a creare… uno spazio luminoso in quella stanza di tenebra: “Depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita, poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto” (vv. 4-5). Sono i gesti del servo, certo, ma sono innanzitutto i gesti di un vero maestro, la cui opera si misura dalla sua capacità di creare luce dove le tenebre si addensano, di creare unità dove il tentatore viene a dividere, di mettere vita in un contesto segnato dalla morte. Quelli di Gesù sono i segni del vero maestro.
E lava i piedi… I piedi, soprattutto in un mondo in cui si camminava spesso scalzi o con calzature esili, sono la parte del corpo che più di altre porta i segni del cammino fatto, delle ferite procurate dai sentieri accidentati della vita. Lavare i piedi significa prendersi cura di quelle ferite: accoglierle, lavarle, asciugarle. Ma i piedi sono anche quello con cui i discepoli continueranno a camminare. Lavarli, rimetterli in sesto, dice dunque anche il desiderio di Gesù, e di ogni vero maestro, che quei discepoli continuino a camminare. Se con il pasto, Gesù esprime il suo desiderio che i suoi continuino a vivere (dare da mangiare a qualcuno significa dirgli: “Voglio che tu viva”), lavando loro i piedi, Gesù dice loro il suo desiderio che continuino a camminare: “Voglio che tu cammini”. La gioia di un vero maestro è vedere dei discepoli che camminano.
Gesù sa che è difficile comprendere questo altro modo (la logica del seme). È difficile per Pietro e lo è ancora per noi. Lo sa e lo rispetta. Chiede solo un ultimo atto di fiducia: “Quello che faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (v. 7). Tante cose le capiremo solo nel momento in cui ci saranno necessarie; per ora ci è chiesto di non venire meno alla fiducia.
Terminato di lavare i piedi di tutti i discepoli presenti, anche di Giuda, Gesù torna a sedersi, riprendendo il posto simbolico del maestro: “Riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro” (v. 12). Chiede dunque se hanno capito, e chiede loro di fare altrettanto, non a lui, ma tra di loro: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (v. 14). Gesù – come un buon Maestro – non chiede la restituzione del favore, ma che ciò che lui ha fatto ai discepoli, essi lo facciano gli uni gli altri. Ciò equivale a chiedere di fare ciò che è in loro potere perché il cono di luce continui a fendere la tenebra che si addensa intorno.
Entriamo dunque anche noi nella celebrazione di questa Pasqua del Signore, accogliendolo come colui che ci lava i piedi, che ci dice il suo desiderio che continuiamo a vivere. E accogliamo quel suo “anche voi…”. Ciascuno di noi si senta chiamato a questa missione: servire il fratello e la sorella, ridicendogli: “Voglio che tu continui a camminare”; “la mia più grande gioia sarà vedere che continui a farlo”.
Liberamente tratto dall’omelia del giovedì santo 2022 di Sabino Chialà – priore di Bose