L’evangelista Giovanni, com’è noto, nella sua narrazione-testimonianza dell’evento Gesù di Nazareth, non racconta l’istituzione dell’Eucaristia, ma tramanda un’esperienza di forte valore simbolico che ci permette di comprendere più profondamente il significato dello “spezzare il pane”, nelle ultime ore della vita di Gesù e nella vita delle comunità cristiane. L’episodio va sotto il nome di “Lavanda dei piedi” (cfr Gv 13, 1-17).
Incontrare l’altro per avere parte con Gesù
L’azione di Gesù che lava i piedi si presenta, anzitutto, come gesto di mani che toccano un corpo e dicono contatto, vicinanza, desiderio di colmare una distanza, di conferire sollievo e conforto. É un gesto che oggi la madre compie con il figlio piccolo o che il figlio fa con il padre o la madre anziana, la sposa con lo sposo, o chi accudisce l’ammalato, il bisognoso. È un gesto di tenerezza che in qualche modo traduce un atteggiamento interiore di condivisione profonda, come lascia intuire l’espressione di Gesù a Pietro: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8), cioè non potrai sperimentare comunità di vita con me, con quanto costituisce la sorgente della mia vita, l’amore che c’è tra me e il Padre. Emerge così la radice e la motivazione interiore profonda da cui nascono i gesti di amore e di servizio.
È questa forza interiore accolta e riconosciuta, per cui il dono di vita che ci attraversa viene dal Padre e raggiunge ogni uomo, che muove il pensare e l’operare di Rachele e assume mille piccole sfumature riconoscibili nelle espressioni con cui comunica il suo pensiero, le esigenze e i bisogni suoi e del nascente Istituto, la sua riconoscenza. La sua parola così si fa segno verbale che trasmette il senso spirituale dei gesti che compie o di quelli compiuti dalle persone con cui interagisce. Rivolgendosi, ad esempio, a Francesco Revedin che aveva sovvenzionato i lavori per restaurare alcuni locali che consentissero di avviare la scuola a Venezia nel 1839 Rachele scrive: “… ogni espressione umana perde il suo valore quando al divino appartiene. Questo è il caso mio, dover ringraziare la Sig.ria V.ra ill.ma per un oggetto santo, qual è la carità da Lei con tanta generosità esercitata, per accrescere a Dio la gloria” (Lett. n. 102, p. 246). Ma sono numerose le affermazioni che costellano le varie lettere, affermazioni brevi, intersecate alle mille e svariate situazioni con cui deve fare i conti e che lasciano trasparire come l’animo di Rachele sia abitato dalla consapevolezza “di un suo aver parte in Gesù con il Padre” e dalla sua esigenza che molti, sempre più, soprattutto le fanciulle e le giovani, possano entrare in questa partecipazione. E da qui nascono tutti i suoi gesti, cioè le sue azioni, le sue scelte, i suoi desideri, lo spazio delle sue relazioni.
A don Marco Passi, con insolito ardire e schiettezza scrive: “…rifletta un po’ che l’anima sua non è ancora consumata dal santo amore, né crocifissa con Gesù… oh, beata sorte dell’anima, che opera in fede! Ah, potessimo far intendere questa verità ad ogni creatura! … Ed Egli (Gesù), carità infinita, anche ieri mi ha donato la consolazione di togliere una giovane (Rosa Padovan la cui casa era divenuta un postribolo. Cfr Lett. n. 360, 3, p. 302) dal prossimo pericolo di cadere, forse per sempre nelle mani del nemico. Ora trovasi presso di me. (Lett. n. 362, 3, p. 306). C’è un nesso profondo che Rachele stabilisce fra l’identificazione con Gesù e aiutare le persone, in particolare le giovani.
La consegna di sé e della vita
Per lavare i piedi ai discepoli Gesù si spoglia della veste e poi la riprende. Letta simbolicamente questa azione può indicare lo spogliamento della sua vita che passa attraverso la morte per una riconsegna nella Resurrezione da parte del Padre. Consegnare la vita significa non avere progetti propri su di essa, non fare calcoli a partire da sé stessi. Rachele conosce che il ruolo a cui è preposta e il lavoro che le è stato chiesto le richiede un impegno totale e una disponibilità senza riserve. Scrive a Don Luca: “S’io sarò dal Signore presto chiamata, non voglio lasciar imbarazzate quelle che restano. Se l’Istituto avesse mezzi, volentieri indulgerei, ma qui si lavora giorno e notte, dando al corpo quel solo che può bastare perché non cada, eppure ho spesso forti dolori di capo.” (Lett.n. 501, 4, p. 135).
La vita abbracciata è una vita che, paradossalmente come quella di Gesù, si afferma nella spoliazione e richiede di entrare nella condizione di sentirsi ed essere “serve”, giocandosi nella disponibilità alle esigenze della vita dell’Istituto e delle attività e opere che esso persegue. Così a Maria Teresa Roberti: “…veggovi pure esultare per l’avvicinarsi del tempo che chiamar vi potrete con più ragione le serve del Signore” (Lett. n. 485, 4, p. 107).
Sullo stesso tono rivolgendosi a Mons. Andrea Agostinelli: “Ho sommamente raccomandato alla detta (la giovane Taverna) di molto pregare il Signore, acciò le conceda quel conoscimento di sé stessa che viene solo dall’infinita sua bontà, perché essendo ella dai ministri del Signore scelta per essere un giorno fondatrice, trovo una grande necessità che possieda un vero annichilamento, acciò l’esempio più che le parole abbiano a parlare di lei” (Lett. n. 98, 2, p. 235). Ancora questa libertà è adesione a quanto le circostanze impongono: “La mia (salute) è ancora sconcertata, pure agisco qualche cosa, ed è volontà di Monsignore, nostro Superiore che abbia da rimettermi, e quantunque senta l’anima mia il desiderio di unirsi al suo Dio, soffre contenta di restare nell’esilio, purché il volere di Dio si adempisca perfettamente” (Lett. n. 487, 4, p. 111).
Fare quello che Gesù ha fatto per essere come Lui, condividere la sua eredità
Il gesto di Gesù che lava i piedi riassume e sintetizza quanto egli ha compiuto nella sua vita e che avrà l’epilogo finale nella morte: egli ha amato l’uomo mostrando come Dio lo ama ed ha tradotto ciò in parole, azioni, gesti, preghiera. Il senso profondo del farsi servo di Gesù è rivelazione e manifestazione dell’amore del Padre che lo abita. Accogliendo l’uomo in tutta la sua povertà, nei bisogni, nei limiti, nelle carenze egli ha mostrato il volto del Padre, la sua misericordia.
Potremmo dire, salvando le distanze, che questo è avvenuto anche nella vita di Rachele. Non c’è scritto in cui la concretezza delle situazioni che affronta non sia attraversata da uno sguardo religioso, in cui l’attenzione sia distolta dal dichiarare quanto lei brama per sé… ed è riconoscere Dio, incontrarlo, possederlo, amarlo e fare che sia conosciuto, incontrato e amato da tutti, in particolare dalle giovani, così che l’Opera di S. Dorotea sia occasione e spazio perché le giovani abbiano vita piena, la vita in abbondanza che Gesù ha promesso ai suoi. Se l’espressione: “Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi” (Gv 13,15) pone Gesù come sorgente e modello del sentire e agire cristiano, significa che il discepolo è anzitutto colui che si lascia abitare dalla carità di Cristo, per cui il suo fare nasce dall’essere interiormente abitato dalla rivelazione e dal dono ricevuto. Questa coscienza diviene condizione e prospettiva da cui muovere per dare significato all’agire. Rachele lo sa e per questo ripete a Don Luca: “Sì, veramente ha tutta la ragione di consolarsi ed anche di ringraziarlo (il Signore), perché non solo si è degnato trarmi dal niente, ma mi prese in braccio e tolsemi dal fango in cui potevo cadere” (Lett. n. 142, 2, p. 324).
Non c’è un’immagine più bella di questa, del sapersi portate in braccio da Dio, per avvolgere gli impegni e i giorni della tenerezza con cui ci si sente sostenuti e trasmetterla, quasi spargerla a piene mani, sulle persone e sulle situazioni quotidiane.
Andrebbero qui, a buon motivo, recuperate le conclusioni della riflessione posta nel numero precedente.
Suor Emmarosa Trovò
(Ardere per accendere anno 2005)
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La dinamica del farsi servo nell’esperienza di Madre Rachele