Vorrei riportarvi all’unzione di Betania. Si tratta dell’unica unzione del Cristo cui il vangelo faccia riferimento. Tale unzione avviene poco prima della croce, ad essa prepara gli astanti, come lo stesso Gesù non manca di affermare: “Lasciala stare! Lo aveva conservato per la mia sepoltura” (Gv 12,7). Dall’olio possiamo apprendere una grande verità: solo chi passa attraverso la spremitura, lo schiacciamento della sofferenza, porta frutto. L’unzione di Betania, e non le unzioni sacerdotali e regali della prima alleanza, deve divenire il riferimento principale per leggere la nostra unzione!
A Betania l’olio si mescolò con le lacrime di Maria, che unge i piedi del Cristo. L’olio che consacra si mescola a lacrime di donna. Quanto conforto porta con sé questo segno, che è divenuto olio dei malati e dei sofferenti. Sono duemila anni che rabbocchiamo quest’olio, l’olio che le donne riportarono dal sepolcro con l’annuncio della risurrezione del Signore, olio che non andò sprecato e che arriva fino ad oggi di generazione in generazione, ricordandoci che non ci sono lacrime che non saranno asciugate, né cuori che non saranno confortati. L’olio che risana le ferite è anche olio di gioia infinita. E la gioia profuma la vita.
L’olio usato da Maria a Betania è olio di nardo purissimo, che resta nel cuore di chi lo sente. Eppure il nardo non era un olio con cui ungere i vivi. Esso ero impiegato nelle sepolture. Si riservavano i beni più preziosi per la morte, non per la vita. Gesù introduce qui un cambiamento radicale: non vale la pena lavorare per qualcosa che porta alla morte, non vale la pena dedicare un’intera esistenza al risparmio dei beni in vista del sepolcro.
Maria, invece, senza curarsi del costo di quell’olio, senza badare al fatto che fosse troppo prezioso per sprecarlo per i vivi, preferisce utilizzarlo per celebrare ciò che per lei è più importante. Gesù consacra ciò che i buoni definirebbero mancanza di avvedutezza. Non abbiate timore di fare spreco di generosità, come ripeteva spesso don Tonino Bello!
Liberamente tratto da un’omelia di don Mimmo Battaglia, vescovo di Napoli