Francois-Xavier Nguyen Van Thuan, cardinale vietnamita scomparso a Roma il 16 settembre 2002, è stato prigioniero per 13 anni nelle carceri comuniste del suo Paese. Attraverso alcuni stralci dei suoi scritti, desideriamo rimanere in sua compagnia per cogliere la virtù del coraggio della fede coniugata dietro le sbarre della sua “residenza obbligatoria” che, nonostante tutto, l’ha reso libero.
Quella notte, su una strada lunga 450 km che porta al luogo della mia residenza obbligatoria, tanti pensieri confusi vengono alla mia mente: tristezza, abbandono, stanchezza, dopo 3 mesi di tensioni… Ma nella mia mente sorge chiara una parola che disperde tutto il buio, la parola che monsignor John Walsh, vescovo missionario in Cina, pronunciò quando fu liberato dopo 12 anni di prigionia: «Ho passato la metà della mia vita ad aspettare». È verissimo: tutti i prigionieri, incluso io stesso, aspettano ogni minuto la liberazione. Ma poi ho deciso: «Io non aspetterò. Vivo il momento presente, colmandolo di amore».
Un uomo che anche dalla Croce e dalla solitudine del carcere “ha sempre saputo trasmettere speranza al fratello” e sapeva che anche lì il Signore “lo chiamava ad essere testimone della fede”. Così “ha evangelizzato, ha fatto amicizia, ha cantato, ha insegnato, ha cercato sempre di essere fedele alla chiamata ad essere sacerdote”, lo descrive così il postulatore della causa di beatificazione Waldery Hilgeman.
Quando i comunisti mi caricano nel fondo della nave Hâi-Phòng con altri 1500 prigionieri, per essere trasportati a nord, vedendo la disperazione, l’odio, il desiderio di vendetta sulle facce dei detenuti, condivido la loro sofferenza, ma subito questa voce mi richiama: «Scegli Dio e non le opere di Dio», e io mi dico: «Davvero, Signore, è qui la mia cattedrale, qui è il popolo di Dio che tu mi hai dato affinché me ne prenda cura. Devo assicurare la presenza di Dio in mezzo a questi fratelli disperati, miserabili. E la tua volontà, allora, è la mia scelta».
Arrestato, si fece mandare, con vestiti e dentifricio, una bottiglietta di vino per messa con l’etichetta “medicina per lo stomaco” e alcune ostie nascoste in una fiaccola per l’umidità. Ogni giorno, con tre gocce di vino e una goccia d’acqua nel palmo delle mani, celebrava la messa.
Al momento della pausa, con i miei compagni cattolici, approfittiamo per passare un pacchettino a ciascuno degli altri quattro gruppi di prigionieri: tutti sanno che Gesù è in mezzo a loro, è lui che cura tutte le sofferenze fisiche e mentali. La notte, i prigionieri si alternano in turni di adorazione; Gesù eucaristico aiuta in modo tremendo con la sua presenza silenziosa. Molti cristiani ritornano al fervore della fede durante questi giorni; anche buddhisti e altri non cristiani si convertono. La forza dell’amore di Gesù è irresistibile. L’oscurità del carcere diventa luce, il seme è germinato sotto terra durante la tempesta. Offro la Messa insieme al Signore: quando distribuisco la comunione dò me stesso insieme al Signore per farmi cibo per tutti. Questo significa che sono sempre totalmente al servizio degli altri.
Il coraggio della fede, come ci testimoniano Van Thuan e Dorotea, è mosso dall’Amore. Quell’Amore che rende possibile il dono della Vita perché la si sa custodita nelle mani del Padre.